Ci siamo lasciati con un articolo che riassumeva i motivi per cui dovremmo odiare il 3D. Gli ultimi due punti illustravano come il cambio di fuoco e un montaggio rapido diventassero un problema per i film tridimensionali. Come preannunciato, vorrei agganciare a questi ultimi due punti un’altra riflessione.
Non solo il regista di un film in 3D può disporre meno liberamente della serie di strumenti espressivi che si era gloriosamente guadagnato nel corso del secolo scorso, ma si trova privo dell’elemento basilare, quello su cui si poggiano tutti gli altri: l’inquadratura.
La composizione del quadro, ossia in parole povere come gli elementi di fronte alla macchina da presa vengono disposti all’interno del rettangolo dell’inquadratura, è la base della realizzazione di un’immagine. Lo sappiamo non dal 1895, ma da quando esiste l’arte pittorica, cioè praticamente da sempre.
La bidimensionalità di un’immagine fa sì che ciascun elemento occupi uno spazio preciso all’interno del quadro: la sua posizione lo mette in relazione tanto con i contorni dell’immagine quanto con gli altri elementi presenti in essa.
Alcuni esempi.
La bellezza, o se volete il grado di iconicità di queste immagini, sarebbe infinitamente minore se fossero state realizzate in 3D. Vediamo perché.
In primo luogo l’appiattimento della profondità su un unico piano crea un’impressione di graficità assente nella scena reale: ad esempio, nel fotogramma tratto da 2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick le linee prospettiche diventano segmenti che puntano contro l’astronauta, mentre le barre di luce diventano cerchi ad esso concentrici; si crea un reticolo di direttrici che pilotano il nostro sguardo con molta forza, non così marcato in una scena tridimensionale.
Provate mentalmente a spostare il punto di vista su queste scene, come se la macchina da presa fosse stata più a destra, o più a sinistra, o più sopra o più sotto: la costruzione di queste immagini crollerebbe perché gli elementi perderebbero questo calibratissimo allineamento. Ecco, anche questo con un’immagine tridimensionale è meno vero.
La tridimensionalità impone una maggiore importanza alle relazioni di profondità, rispetto a quelle di posizionamento spaziale: vale a dire che in un’immagine 3D ci importa più di tutto sapere se un oggetto è vicino o lontano e molto meno se è – poniamo – all’immediata destra di un altro.
Anzi, il punto è che gli oggetti che appaiono vicini in un’inquadratura classica e creano interessanti relazioni spaziali magari sono distanti metri e metri nella realtà tridimensionale. La loro relazione è fittizia, creata ad arte da chi sceglie l’inquadratura, da chi ha scelto di riprenderli in quella particolare posizione reciproca. Tutto questo sparisce con l’introduzione della terza dimensione.
In sintesi, il 3D crea ambienti, più che immagini.
Inoltre il 3D tende a far sparire i bordi dell’immagine: anche quando non fa i giochetti scemi di roba che ti viene buttata addosso, il film tridimensionale trasforma lo schermo in una finestra aperta sul mondo. Si ha l’impressione che il quadro sia più esteso di quello che appare. Lo schermo non è più una porzione di spazio attentamente delimitata da quattro bordi che esclude e nega qualsiasi cosa ad essa esterna, ma una fenditura rettangolare su una realtà illimitata che presuppone e invoca quello che le sta fuori.
In altre parole, e a voler essere estremisti, il 3D delegittima l’uso del fuori campo.
Ora, senza un’immagine ben costruita e senza la scelta di una porzione di spazio ben definita, come si fa a chiamarlo cinema? Come si può parlare di visione? Di punto di vista sul mondo?
L’inquadratura del cinema bidimensionale stesso offre uno sguardo “su una realtà illimitata che presuppone e invoca quello che le sta fuori”. Sullo schermo vediamo solo una porzione di mondo, ma avvertiamo anche la presenza del resto. E questa porzione di spazio è delimitata da bordi permeabili: la macchina da presa può sempre spostarsi di lato; e la realtà a lato di quell’inquadratura può sempre irrompere nell’immagine. Il frammento di mondo che ci offre lo sguardo cinematografico non nega la totalità. E ciò che non arriva a fare l’inquadratura lo fa comunque il montaggio: quel che resta fuori da un’inquadratura, si può sempre avere nella successiva.
Ciao Ale, grazie per il commento. Personalmente trovo che l’inquadratura “tradizionale” non sempre presupponga quel che le sta fuori, anzi credo che per sua natura sia fatta per delimitare e chiudere quel che le sta dentro. Si possono certo avere casi in cui quello che non viene inquadrato è ugualmente importante di quello all’interno dell’inquadratura, o casi in cui lo è perfino di più. Sono appunto i fuori campo.
Quello che dico nell’ultima parte dell’articolo è che il fuori campo nel 3D perde gran parte del suo senso perché l’inquadratura tridimensionale presuppone sempre e comunque un campo illimitato. Ho sempre l’impressione che potrei girare gli occhi da un’altra parte e vedere quello che ci sta attorno, come posso fare nella realtà; non sento mai la meravigliosa impossibilità di farlo e l’abbandono felice alla visione del regista che mi costringe a guardare solo quel che vuole lui.
Sono chiaramente questioni percettive, perché neanche col 3D possiamo realmente girare gli occhi e vedere altro. L’impressione però è quella.
Ciao.
prendo spunto dalle 3 foto che hai postato.
Premesso che trovo profondamente sensato quanto dici, io penso però che il 3d sia in realtà una nuova (per quanto vecchia) forma di espressione del cinema e dell’immagine stessa.
Prova a visualizzare nella tua mente le 3 foto in 3D. Nella prima avresti il personaggio in primo piano che fuoriesce letteralmente dallo schermo mentre tutto ciò che si vede sfuocato nello sfondo, resterebbe perfettamente a fuoco ma molto distante.
Il risultato finale non cambierebbe di una virgola, anzi ne guadagnerebbe l’impatto del personaggio in primo piano che è effettivamente quello che il regista vuole far notare più del resto.
Nella seconda foto il discorso è più complesso. Difatti il regista dovrebbe pensare a differenti espedienti per ricreare la forza della foto.
In 3d sarebbe tutto perfettamente a fuoco, quindi si perderebbe lo stacco tra il bambino in primo piano e lo sfondo. Ciò non toglie che probabilmente un’inquadratura diagonale potrebbe risolvere facilmente il problema.
Nella terza foto non cambia nulla. La stessa foto in 3d restituirebbe la stessa enfasi addirittura aumentata dato che avresti la percezione di profondità.
Detto questo, non penso che il 3d debba per forza rivoluzionare il modo di concepire il cinema
cosi’ come del resto la fotografia a colori non ha “eliminato” il bianco e nero.
Sono 2 realtà che possono benissimo coesistere fra loro .
Dovrà essere l’intelligenza del regista afar decidere quando usare o meno una tecnologia piuttosto che l’altra.
Complimenti comunque per l’articolo
Grazie del commento e dei complimenti Alx. Personalmente considero il 3D un’ubriacatura tecnologica per risollevare maldestramente il problema degli incassi calanti al cinema (come sempre i produttori sono miopi e non si rendono conto che per fare soldi serve un’idea, non una tecnica: Il Cigno Nero, per dirne uno, l’ha provato alla grande). A differenza del colore rispetto al B/N, che era un pennello in più a disposizione dell’artista, il 3D trovo che metta a repentaglio il concetto di inquadratura, minando il concetto stesso di punto di vista e quindi di cinema. Non penso sia utile ragionare in chiave “per ottenere questo effetto classico del cinema, ora col 3D dovremmo farlo così”. Non è una traduzione del vecchio. E’ un’altra cosa, ma invece che aggiungere possibilità espressive, temo le minacci. Finora non ho visto nessun film in 3D in cui la tridimensionalità sia stata usata in maniera espressiva o per veicolare un contenuto concettuale prima assente (Hugo Cabret in questo senso è il caso esemplare, strombazzato come rivoluzione d’autore e in ultima analisi una presa in giro offensiva).